mercoledì 19 settembre 2012

Il Buongiorno di Massimo Gramellini



da: La Stampa

Questione di fiducia

La classe dirigente al crepuscolo ha vissuto ieri un’altra delle sue surreali giornate.

La Giunta per il regolamento della Camera ha respinto la proposta del presidente Fini di affidare la certificazione dei bilanci dei gruppi parlamentari a una società esterna. Perché scomodare degli estranei quando gli onorevoli deputati possono giustificare le proprie magagne benissimo da soli? Tanto più che la certificazione esterna li obbligherebbe a garantire la tracciabilità delle spese. Addio a contanti e fuori busta, e instaurazione della dittatura delle ricevute e delle carte di credito. Una scelta da Paese civile, quindi oltremodo antipatica ma fortunatamente scongiurabile, a patto che il controllo venga lasciato a chi ha davvero i titoli per esercitarlo: i controllati.

Naturalmente non è questa motivazione prosaica ad avere impreziosito le relazioni dei membri della Giunta. Essi hanno preferito appigliarsi alla Costituzione, alla democrazia e alla libertà. Ma appena il frutto delle loro cogitazioni è finito sulle agenzie di stampa è scoppiato il pandemonio. I più lesti ad accorgersene sono stati due democristiani - Casini dell’Udc e Franceschini del Pd - che fiutando la rabbia degli elettori di centro e di sinistra si sono affrettati a smentire i propri rappresentanti in Giunta, dicendo che mai e poi mai avrebbero accettato una simile riforma consociativa e che anzi si sarebbero adoperati per fare certificare all’esterno i bilanci dei loro gruppi parlamentari. Nessun segnale apprezzabile è venuto invece dal Pdl, nonostante i suoi elettori siano persino più arrabbiati degli altri. Il partito che fu di Berlusconi ha preferito osservare l’ennesimo minuto di silenzio in morte di se stesso.


Alla fine il nuovo strappo fra Palazzo e Paese è stato in parte scongiurato e, fra un inciampo e un tentennamento, la Casta continua la sua opera di redenzione fuori tempo massimo. Cavour ammoniva che le riforme vanno fatte un attimo prima che i cittadini ne avvertano l’esigenza. Invece l’autoriforma della politica sta avvenendo in ritardo, a singhiozzo, e solo per il costante stimolo dell’opinione pubblica. Appena giornali e associazioni si distraggono un attimo, quelli ci riprovano. E quando la magistratura scoperchia gli scandali come alla Regione Lazio, imponendo uno scatto quantomeno di dignità, alle promesse iniziali di sfracelli seguono brodini caldi che ancora qualche tempo fa ci sarebbero apparsi saporiti, ma adesso risultano inesorabilmente sciapi. Se Renata Polverini avesse bloccato la proliferazione (con relativi benefit) dei gruppi consiliari composti da una sola persona o avesse tagliato le ventotto auto blu del garage laziale quando tutti glielo chiedevano, avrebbe raccolto consensi. Oggi che di auto ne toglie ventitré, i cittadini non applaudono. Semmai guardano con dispetto alle cinque rimaste, immaginando che serviranno a saziare i bisogni mobili del presidente del Consiglio regionale Abbruzzese, quel tizio impermeabile alla vergogna che ha dichiarato al nostro giornale di avere urgente necessità di due vetture sovvenzionate dai contribuenti, una per muoversi a Roma nel corso della settimana e l’altra per curare il collegio elettorale di Cassino durante il weekend.

La sensazione è che, malgrado gli sforzi dei politici più avveduti, all’opera anche ieri, il rapporto di fiducia fra questa classe politica e il Paese sia saltato definitivamente. Ormai basta un equivoco o un dettaglio sospetto - il classico capello sulla giacca che allarma la moglie più volte tradita, dunque diffidente - perché il disgusto, la nausea e la disistima tornino a prendere il sopravvento. Il ricambio della nomenclatura di destra e di sinistra non è un capriccio populista, ma la condizione perché gli italiani ricomincino a fidarsi dei loro rappresentanti. Per tentare di restituire alla politica il prestigio perduto non è rimasto che un modo: cambiare le persone che la fanno.

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